Cara
Mirella, la ringrazio per il tempo e per l’attenzione che vorrà dedicarmi alla
realizzazione del primo capitolo del mio elaborato. Scriverò la biografia di
Andrea ispirandomi ai suoi ricordi di mamma, compagna di viaggio, alleata,
musa. Vorrei, attraverso le sue parole, dipingere il suo ritratto e dargli
voce, oggi. Sarà la mia interpretazione, che spero possa prendere una giusta
forma nella tesi che sto scrivendo. Se potesse allegare delle fotografie,
aggiungerei valore e documentazione allo scritto. La abbraccio forte.
Alessandra
Adamo
(Milano, 20 ottobre 2021)
***
Cara Alessandra, mi scuso del ritardo, ma ho accarezzato fin
dal principio il tuo progetto che mi ha dato ancora una volta un fremito di
gioia perché, pur con l’inesorabilità del tempo che attenua le emozioni, ricorda
e vuole dare voce ad Andrea. La clessidra del tempo è inesorabile ma talvolta
alterna i suoi movimenti, sia a nostro favore che a nostro sfavore. Sono tre anni che il mio cuore è greve, il vuoto è
inesauribile, l’assenza è urlata. Ma oggi io ti devo ringraziare, gentile
Alessandra, con la tua intervista sulla vita di Andrea, hai fatto salire nella
mia memoria gli avvenimenti, il percorso della nostra vita insieme. Ho
ricordato non le asprezze e la sua malattia ma la dolcezza del bimbo che sentii
palpitare nel mio ventre, leggero come i petali di un fiore mossi dal vento. Ho
ricordato sorridendo e mi ha consolata. Io non so esprimere coerentemente le mie emozioni e forse le
mie risposte alle tue domande non hanno seguito un filo logico ma l’emozione mi
ha sopraffatta, ha portato via la ribellione al suo distacco, la rabbia,
l’ingiustizia. Quando scrivo di mio figlio, la mia mente si allarga a
dismisura come un oceano incontenibile; la mia penna vola come i miei ricordi,
senza confini, sommersi dalle onde del passato dove il presente, il futuro è nei
vostri progetti di vita, dove mio figlio possa rivivere la vita che lo aspetta,
che ci onora perché quanto ha dato non sia ma disperso ma sia nutrito
attraverso ammirazione, nostalgia, anche stupore nel ricordo di quanto ha dato
alla nostra letteratura.
I ricordi e le emozioni di mamma Mirella per la Tesi di Alessandra
La bambola è il primo incontro con l’istinto
materno di una bimba. Anche questo però è opinabile, ci sono bimbe nelle quali
questo istinto è sopito, sostituito oggi da oggetti tecnologici e telefonini.
La bambola e l’orsacchiotto spelacchiato sono i primi oggetti che una bimba si
stringe al cuore, scatenando un sentimento la cui sublimità è struggente,
inenarrabile, protettiva.
Io ebbi, nella mia lontana infanzia, il
dono di due nonne, una paterna, l’altra materna. La prima, madre di mio padre,
nobildonna tedesca di alto lignaggio, mi donò una bambola senza l’ombra di un
sorriso perché era una donna austera; mi faceva solo soggezione e timore di
turbare con le mie manifestazioni di affetto, la sua bellezza regale. La
bambola aveva gli occhi ovviamente cerulei però agghiaccianti senza alcuna
espressione e i capelli, ovviamente biondi, intrecciati su un abito di pizzo
leggero, di una veste di velluto tenero di trina leggera. Forse l’epoca è così
lontana. Era una bambina Lenci che, credo, ai quei tempi era l’emblema della
bambola di lusso. Ne avevo timore.
Mia nonna era una nonna meravigliosa,
però non amava le carezze. Io la ammiravo come una statua perfetta. La bambola
la portai in Italia e la misi su un cassettone, dove lì rimase per anni
raccogliendo polvere. Mai le concessi il tepore del mio letto. Nei momenti di
silenzio interiore mi pentivo e mi avvicinavo a lei tentando di rimuovere quel
distacco fisico ma non ci riuscivo. Mai ebbi il desiderio di stringerla fra le
braccia, di abbattere la sua incomunicabilità. La famiglia riflette su questo.
La famiglia è un’oasi di silenzio e non dà corpo ai pensieri ancora intonsi dei
figli.
Mia nonna materna era una donna
semplice, abitava in campagna, era di famiglia modesta, aveva avuto un colpo di
fortuna sposando mio nonno, guardia forestale che conosceva il Latino come
lingua universale. La nonna, si chiamava Rosa, era piccola, rotondetta con un
caschetto di capelli neri la cui lucentezza le impreziosiva il viso. Lei mi
compose con le sue mani una bambola di stracci i cui abiti erano composti di
stoffa tolta dai suoi grembiuli di cucina a quadretti bianchi e rossi. Gli
occhi della bambola erano sfuggenti perché non esistevano, ma il suo sguardo
vegliava e seguiva ogni mio passo. Immediatamente nacque in me il desiderio di
cullarla fra le braccia e darle amore, protezione, sicurezza. Divise con me nei
molti anni che seguirono insieme a un orsacchiotto spelacchiato il mio letto, i
miei sogni, le mie delusioni, le mie speranze. Mi consolava e rassicurava.
Il mio istinto materno nacque da quel
rapporto, una bambola di stracci e un orsacchiotto spelacchiato che avevano
bisogno di me. Quando ebbi la certezza che il mio ventre avrebbe dato vita a un
bambino, che lo avrei nutrito, che gli avrei dato il meglio di me stessa, che
avrei alimentato il desiderio di sapere, di conoscersi, di donare agli altri quello
che non avevano, che lo avrei cullato chiunque egli fosse diventato. Così io ho
immaginato mio figlio mentre il ventre palpitava di creativo amore. L’attesa fu
armoniosa e presaga che i miei desideri si sarebbero avverati, che le bambole
della mia infanzia si sarebbero abbracciate l’un l’altra creando un’anima dove
la forza, il potere, la fierezza, si sarebbero uniti in un insieme dolce,
sensibile, armonioso, tenero, bisognoso di amore.
I ricordi sono di ieri, di oggi. Sono
vivi, come il palpito del mio cuore oppresso dal silenzio di un passato di quei
giorni gioiosi, nebulosi, con le nuvole presaghe di grandi temporali, grandi
cataclismi. E’ naturale e umana la gioia e la quasi ansia con i momenti di
preoccupazione di una madre. Il mestiere delle mamme è la preoccupazione, è
indubbiamente vero, Andrea lo diceva sempre.
Gli anni passarono. Una notte Andrea non
era rientrato, suonarono alla porta, era la polizia. E’ raro che un poliziotto
ti riporti a casa tuo figlio, si era addormentato al cinema, evidentemente il
film non lo interessava e Morfeo se n’era impossessato, era stato complice. I
poliziotti furono comprensivi e mi consegnarono Andrea che con l’aria afflitta
e consapevole dell’ansia che mi aveva procurato, si scusò. Naturalmente lo
perdonai e non lo sgridai. Io non ho mai sgridato Andrea. Ho sempre cercato,
anche con fatica, di lasciarlo libero nei suoi sbagli e nei suoi successi e ne
sono fiera.
Un ricordo che mi riporta il sorriso. Aveva
tre anni e mi disse “Le mamme si adorano, mamma io ti adoro.”. Mi portava
spesso dei fiori e una mia amica mi diceva “Andrea deve aver fatto qualche
marachella, per farsi perdonare dalla sua mamma le porta sempre un mazzo di
fiori.”
Alla festa della mamma mi mandava una
pianta di gardenie. Io l’aspettavo. Oggi, non potendo per ragioni fisiche
andare a salutarlo dove riposa (ma quando mai Andrea può riposare?) mi dono una
pianta di gardenie. La porto sul mio balcone e ogni giorno vi immergo il viso,
il profumo mi avvolge come una carezza.
Una mattina Andrea mi chiamò in ufficio
dicendomi di avere una ferita alla pancia e che doveva assolutamente medicarla.
Naturalmente volai letteralmente a casa a bordo della mia Bianchina, feci i
miracoli, provvidi a medicarlo ma era una ferita superficiale Gli uomini, come
sempre, esagerano. Chiesi spiegazioni e Andrea mi disse “Dopo ti spiego”. Non
mi spiegò mai nulla lasciando alla mia fantasia già fervida immaginazione delle
deduzioni che sono ancora rimaste inevase.
Ricordo che nella sua prima infanzia e
anche nella sua maturità nel giorno della Befana desiderava avere la calza che
conteneva, allora si usava, carbone o dolci, a seconda di come uno si era
comportato. Io sorridevo e dicevo “Ma Andrea non sei più un bambino” ma nel
cuore era un bambino. La stessa cosa si ripeteva per l’uovo di Pasqua dal quale
si attendeva la sorpresa. Questo era mio figlio, un uomo, un fanciullo.
Gli piaceva mangiare ma solo a casa.
Rifiutava inviti ma purtroppo per me, invitava troppo frequentemente le sue
partner del momento che apprezzavano con evidente soddisfazione di Andrea, la
mia cucina. Io ne dedussi, dal mutismo ermetico delle fanciulle, che non
avevamo simpatia reciproca. Domande e risposte. Lui leggeva il giornale,
ascoltava la televisione e io facevo le domande e le risposte. Io tentavo di
conversare con le mie ospiti e domande e risposte cadevano nel silenzio
nonostante i miei tentativi. Forse erano vuoti generazionali.
Andrea amava anche provocarmi per
suscitare in me qualche reazione che non mi era congeniale. Appresi così che il
papa di allora che era Paolo VI, era l’amante dell’attore Paolo Carlini. I
difesi a spada tratta il padre della Chiesa. Recentemente ho letto questa
notizia su internet e sono rimasta basita.
Ad Andrea piaceva stimolare il mio
interesse, la mia curiosità, per il suo mondo che non era decisamente il mio.
Io vivevo e vivo in un mondo dove le brutture della vita arrivano attutite e
dominate dalla mia incredulità e, forse, ingenuità.
Andrea mi voleva proteggere. Mi disse
che un celebre autore di canzoni bellissime con il quale ci incontravamo sempre
a teatro, duettando poi nel dopo teatro, che era malato di tumore,
raccomandandomi di non parlarne. Lo interrogai a vuoto, qualche mese dopo,
Paolo Limiti ci lasciava. Andrea aveva voluto risparmiarmi quell’attesa
inesorabile. Mi voleva proteggere. Così accadde per Fabrizio Frizzi, il
gentiluomo che aveva animato le nostre serate con la sua spontaneità, con la
sua signorilità, con la generosità dei suoi valori.
Andrea saliva sulle montagne russe ed io
attendevo su un praticello di tenera erba verde. Poi, lui tornava accanto a me,
un po’ ammaccato, era il suo mondo notturno dal quale traeva alimento per le
persone dei suoi libri, dei suoi racconti, delle sue affabulazioni che
rivelavano il suo mondo surreale, ironico, istrionico, romantico, ribelle,
sensibile fino allo spasimo.
Durante la giornata mi telefonava almeno
cinque volte. I suoi amici erano stupiti da quest’abitudine giornaliera, lo
prendevano in giro ma le loro madri erano però meno fortunate di me. Tornando
indietro nel tempo, nel suo iter scolastico fu alquanto movimentato, non
sopportava la disciplina, era intollerante alle regole. Fui chiamata più volte
in presidenza per le lamentele del caso che si concludevano però in un garbato
baciamano e le scuse per avermi disturbato.
Parigi val bene una messa. Con alcuni
insegnanti c’era un rapporto più che alla pari. Lui sapeva quello che loro
volevano spiegare agli alunni, era onnivoro, i libri, la letteratura di
qualsiasi paese, le poesie, la storia, la geografia, la cultura dei paesi
stranieri, erano il suo pane quotidiano, era in grado lui di insegnare agli
insegnanti e questo attirava ovviamente qualche volta il loro malanimo.
Le sue risposte lapidarie non
concedevano repliche, forse esposte con un po’ di arroganza, che gli erano
comunque sempre perdonate, perché inconfutabili.
La matematica era obsoleta, le materie
scientifiche pure. Fui chiamata dall’insegnante di applicazioni tecniche,
investito da un’autorità che gli attribuiva il suo titolo che mi disse (qui
mancò il baciamano) “Suo figlio Andrea è un deficiente”. Io dimenticai il bon
ton e gli risposi che lo sapevo già e che lo ero anch’io e che lo invitavo a
consultare gli insegnanti delle altre materie per avere un’opinione
dell’intelligenza e della capacità di apprendere di mio figlio.
Mi sovviene, malinconicamente, un
episodio che mi raccontò la signora Mura, l’insegnante di Italiano, legata a
lui da grande ammirazione e complicità culturale. Ci incontrammo un pomeriggio
di festa al mercato, la signora Mura gli chiese “Cosa vuoi comprare Andrea?”
lui rispose “Una cravatta per il mio papà, la più bella perché è il più
grande.” Suo padre era mancato da qualche anno. Il pudore era un’altra
componente dell’anima fragile di mio figlio. Io e la signora Mura ci scambiammo
uno sguardo commosso da mamma a mamma.
Ha lasciato una traccia nel suo percorso
scolastico, un po’ accidentato e altalenante, così come nella vita che visse
come i personaggi indimenticati e indimenticabili dei suoi libri, dei suoi
racconti.
Quanti ricordi, lei mi chiede uno di
questi. Dolcissimo, Andrea perse il suo mentore, Eugenio, che aveva sostituito
il padre, probabilmente per ammirazione per quel fanciullo eccezionale la cui
intelligenza e sensibilità lo affascinavano.
Credo che lui che per ben ventitré anni
gli fu accanto, vigile ma discreto, ammirasse anche il mio coraggio di madre
sola, forte come una guerriera, debole come il petalo di un fiore. Anche
Eugenio fu chiamato sull’altra sponda, era il 5 gennaio 1991. Andrea in serata
rientrò tardi, gli chiesi dove fosse stato, mi disse che aveva portato una
candela in chiesa per il suo amico Eugenio. Per ricordare l’amico vicepadre
mancato.
Aveva una particolare attenzione per i
disabili con delle diversità. I suoi occhi s’intristivano, erano smarriti,
quando incontrava uno di questi. Fu grande amico di un ragazzo in carrozzella
gravemente spastico che frequentava il circolo culturale artistico Le Trottoir.
Io alla cerimonia in chiesa per l’addio ad Andrea, lo incontrai e gli baciai le
mani. Lui aveva perso un amico, io il figlio. Mi piacerebbe rivedere quel
ragazzo, ne ho perse purtroppo le tracce. Non ho mai sentito Andrea parlare
male di qualcuno, cercava sempre le attenuanti, cosa difficile nel mondo
giornalistico. Presentava i libri di
autori sconosciuti meno fortunati di lui. Tutto gratuitamente perché diceva che
dovevano essere incoraggiati. Tutto il mondo milanese gli ha tributato
l’omaggio che lui meritava, questo era mio figlio. Le mie braccia sono vuote.
La bambola di pezza che mi ha commosso il cuore e donato il primo istinto di
maternità ormai è sfatta ma io sono mamma.
Andrea ha avuto una vita quale lui
desiderava, le montagne russe e il praticello verde dove lo avevo cullato dalle
sue intemperanze, gli dava consolazione.
All’età di quattro anni mi disse “Il
mondo è un lupo, io sono l’agnello”.
Non mi sento di esprimere un parere
sull’immenso patrimonio culturale di mio figlio. I suoi libri erano soprattutto tutti miei figli. La sua missione
terrena ed evangelica è stata quella di avere amato la lingua italiana, di
averla diffusa, di averla trasfusa come un nettare.
Quale giornalista d’inchiesta è stato
come sempre osservatore lucido e consapevole e umanamente curioso di un mondo
diverso dove si alternavano realtà concrete e la ricerca umana e psicologica
dei perché.
Andrea amava Milano. Era un milanese DOC.
Ha descritto i vicoli, le osterie, i giardini timidi e non coltivati, le
stradine fumose e accidentate con il pavimento di pavé, i palazzi ricchi di un
passato ormai ridotto, quando va bene, a salone di bellezza, di rappresentanza,
sfilate di moda e negozi di cineserie.
Andrea ha annusato l’odore di Milano,
quello vero. Traspare da tutti i suoi libri, dal patrimonio artistico che ha
lasciato. Vorrei che tutti ne fossimo degni.
Mi si chiede dove è Andrea. E’ qui,
accanto a noi, ha lasciato il meglio di un uomo fanciullo, non gli diremo mai
addio.
Una sera, Andrea poteva avere vent’anni,
iniziava la sua fama, più di personaggio televisivo che di scrittore, fummo
invitati a una serata di gala all’hotel Gallia, era obbligatorio l’abito lungo.
Io avevo un abito color turchese, accollatissimo con le maniche lunghe, nessun
gioiello, solo un gioiello, un bellissimo turbante color turchese. Questo
turbante illuminava l’eccelsa sobrietà della mia mise. Attirò l’attenzione di
tutte le persone e con mio grande imbarazzo vennero a chiedermi l’autografo. Io
rimasi naturalmente intimidita da questo e temevo che Andrea se ne sentisse
diminuito. Temevo il dispiacere di Andrea ma era compiaciuto e mi ricordò una
frase del passato che mi aveva detto mio marito “Tu sei regina” Andrea con la
sua consueta ironia e bon ton fu fiero del mio successo estetico e ne ridemmo
insieme. Indubbiamente il mio amore per un abbigliamento personale e originale,
ma sempre di buon gusto, influenzò le sue mise e la sua ricerca estetica e
assolutamente diversa da quella degli altri. Non avrebbe mai potuto essere
scambiato per un direttore di banca. I suoi cappelli erano sempre perfettamente
intonati ai colori e allo stile del suo abbigliamento, come me d’altronde. Ho
passato i pomeriggi della mia vita facendo la
stiratrice, dieci e lode.
Ricordammo insieme le serate col grande
amico di Andrea, Philippe Daverio. Noi gareggiavamo sull’abbigliamento vivace e
carico di colori. Ci prendevamo vicendevolmente in giro, ridendo insieme delle
nostre stramberie estetiche che erano lo specchio della nostra personalità.
Andrea ammirava la nostra sfrontatezza e nel tempo assunse la sua immagine
ammirata e invidiata.
Andrea aveva con il denaro un rapporto
inesistente. Perdeva spesso il portafoglio, non si curava di quanto guadagnava
né di quanto spendeva. So che era generoso con i colleghi meno fortunati e
anche con chi poteva essere in difficoltà. Mi regalava gardenie, margherite,
lillà, braccialetti e monili tutti d’ispirazione orientale. Belli, che
rispecchiavano la sua e la mia personalità. Eravamo in simbiosi spirituale,
intellettuale, etica, curiosa, imprevedibile come il nostro linguaggio comune.
Durante il periodo scolastico, ordinava
libri non richiesti dalla scuola, a una cartoleria a cui a quel tempo eravamo
diventati amici. Io passavo a pagare il conto ma non erano mai i libri di
scuola, erano i libri che lo interessavano e lo incuriosivano. Il suo hobby era
sapere, conoscere, scoprire. Io non protestavo, lo capivo. La scuola, le sue
nozioni, lo annoiavano. Sapeva già tutto, non era che snobbasse gli insegnanti
ma li trovava ripetitivi e inutilmente competitivi. Naturalmente alla
presidenza, questo non era gradito, e allora il baciamano e l’imbarazzo si
sprecavano con reciproci grandi sorrisi e attestazioni di stima e di rispetto.
Accadde alla vigilia di Natale, Andrea
poteva avere tre anni. La chiesa di San Francesco di piazza Tricolore allestiva
il presepio movibile. Il presepe è una tradizione che rappresenta il passato
dove in ogni casa c’era una culla vuota che aspettava il miracolo della
nascita. Oggi, non so. Andammo con mio marito e Andrea a visitare il presepe. I
visi dei bimbi lasciano trasparire le loro emozioni, gioia, dolore, capricci,
stizza (molto frequenti), non ancora le maschere che distinguono gli uomini
adulti, salvo rare eccezioni. Il viso di Andrea espresse attenzione mista a
incredulità, sgomento, curiosità. Osservava il bambino nudo e disse “Ma non ha
freddo?”. Osservava la dolcezza del viso di Maria adorante. Giuseppe un po’ in
disparte guardava intenerito la sacra famiglia. Il bue e l’asinello alitavano
sul viso di Gesù il calore del loro fiato nella speranza che lo riscaldasse. I
pastori e le pecorelle prendevano parte a quella gioia universale. Dopo il
silenzio che conteneva la sua emozione Andrea disse “Un po’ è questione di
tecnica ma molto è magia”. Il suo viso era pervaso dall’incantamento. Credo che
fu da quell’attimo intensamente spirituale che in Andrea nacque l’amore per gli
animali che lo seguì per tutta la vita. Oggi, a distanza di decenni, quando
vedo un presepe, quell’incantamento lo sento come una carezza divina.
Andrea aveva una zia, zia Olghina, ricca
proprietaria terriera. Gli lasciò un’eredità mirabolante, Andrea era già
maggiorenne e quindi fu assolutamente padrone di quel tesoro. L’eccesso di
denaro è sempre pericoloso e può deviare le abitudini mortali. Le montagne
russe lo attirarono più di prima. Salirono ancora più in alto, le mie notti si
fecero ancora più lunghe e insonni. Lo sferragliare dei vagoni s’inceppò,
Andrea cadde al suolo e il praticello dove io da sempre lo attendevo, che era
verde, rimase schiacciato e l’erba non poté più crescere.
La malattia lo colse inesorabile. Ancora
una volta, la nobiltà della sua anima prevalse nei suoi ultimi giorni di vita.
Volle tenere un reading per il suo ultimo Bookcity milanese, dove parlò dei
suoi libri, della sua arte, del suo sapere, del suo conoscere. Pochi giorni
dopo il Corriere della Sera riportava un’intera pagina col titolo “Morto Andrea
Pinketts, un anarchico a Milano - Geniale e sregolato, raccontava la città con
gli occhi del mistero”. Ci vuole classe per raccontare l’agonia come se fosse stato
in un rock bar.
Così come sale alla memoria il ricordo
della tua ultima sera. Ero solita, in passato, parlare con te, nei tempi
felici, di libri, delle poesie che rimanevano scolpite nel mio cuore, ne
godevi, con me. L’ultima sera, la mia mano stretta nella tua, sussurrammo
insieme la poesia di Giovanni Pascoli “La mia sera”.
…
Don... Don... E mi dicono,
Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra...
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch’io torni com’era...
sentivo mia madre... poi nulla...
sul far della sera.
...
La mia mano non ti ha mai lasciato, io
non ti lascio andare. Ti partorisco tutti i giorni, ho lo spasimo nel ventre
come il giorno della tua nascita.
Mirella Marabese Pinketts