OGGI
20 FEBBRAIO 2017
IL GIORNALE
27 DICEMBRE 2016
Klaus e Jesus la strana coppia che porta la morte invece dei regali
In realtà il titolo di questa storia postnatalizia era «Falle la festa», ma facendo i conti col femminicidio, con gli stupri e gli incesti, consumati anche in famiglie allargate, tutti i santi giorni dell'anno, ho deciso di degradarlo a sottotitolo.
Sono troppo buono? Politicamente corretto? O mi sto semplicemente parando il Klaus? Vedete voi. Anzi leggete voi questo racconto poco edificante. Del resto non sono né un moralista né il titolare di un'impresa edìle.
L'importante non è ciò che bolle in pentola. Ciò che conta è chi bolle in pentola. L'essenziale è che chiunque stia bollendo in pentola, non sia tu. Per fortuna non si tratta di me, né di voi.
La persona che stava per essere bollita in pentola rispondeva al nome di Stella Cometa, una virago di centoventi chili, quindi al presente poco eterea, che in un passato lontanissimo, incredibilmente era stata un'etèra, una dama di compagnia, da letto a baldracchino, laureanda in Filosofia, suonatrice di flauto traverso e brillante conversatrice.
Una gran bella topa ﴾l'avrebbe recensita Pietro L'Aretino﴿. L'antitesi del fiabesco pifferaio magico dei fratelli Grimm,in quanto era lei, la roditrice, a incantare i pifferai per farsi seguire sino al gorgo del piacere carnale. E sappiamo tutti che l'orgasmo è una piccola morte.
In gioventù Stella Cometa avrebbe potuto dare dei punti anche ad Archeanassa, la squinzia di Platone. Poi, nei primi anni '70 del secolo scorso, la bella etèra si era volutamente fatta ingabbiare nella trappola per tope del femminismo militante. «Signore si scende» un cambiamento radicale. Non che Stella avesse smesso di rallegrare i musici ma era
diventata una stella cadente.
Con lei potevi esprimere ancora ogni desiderio ma eri costretto a sorbirti un comizio quando faceva l'amore di gruppo. Il sexappeal dei tempi d'oro si era convertito in un sacco a pelo ipertrofico.
A sessantasei anni Stella cadente, la brillante dispensatrice di gioia effimera, aveva già al suo attivo una corposa e corpulenta serie di pubblicazioni di successo tra le quali è opportuno ricordarsi i titoli «Eros e tabacco», «Priapo a pezzi», «La castrazione chimica del castrismo machista».
Era ricca, famosa, ingorda come una anaconda. E amata. Non da tutti in realtà. Uno dei motivi per i quali durante quei giorni neutri che imbarcano Natale sino all'Epifania, in una Milano addobbata come l'Expo ﴾ormai expo﴿, in una città gelida e vorace come un orchistar, in una Mediolanum che imitava Dubai, camini a parte, qualcuno voleva far bollire Stella in un pentolone. Forse.
Forse per invidia nei confronti di un corpo che era stato cosmico o quantomeno stellare, di un'intelligenza libertaria e libertina, imprigionatasi in una sorta di clausura nei confronti di tutto ciò che non fosse mediatico e ominicida.
Quel qualcuno di cui stiamo parlando, sono questi due qua.
Quello grosso si chiamava Klaus. Una pancia da Serial Drinker di birra artigianale e non. Due occhietti rossi come la tuta extralarge che ne conteneva a malapena l'esuberanza birresca.
Klaus sfoggiava una barba bianca che sembrava zucchero filato nel Luna Park di una discarica. Dava l'idea, confermata dall'afrore che emanava sfidando il gelo, di uno che aveva fatto l'ultima doccia durante la prima guerra del Golfo. 1991 dopo Cristo. A proposito di Natale. Non era un santo bevitore. Bevitore, questo sì. Santo, manco il giorno del suo onomastico.
Le interminabili feste natalizie che si sarebbero protratte fino al sei gennaio, inspiegabilmente il giorno della lotteria di Capodanno, rendevano Klaus anacronistico. Somigliava vagamente a Babbo Natale. Ma a un babbo natale fuori tempo massimo. Uno reduce da una bisboccia cisposa. Klaus sembrava un clochard conciato per le feste, vestito in rosso Ferrari. Ovviamente, non era un babbo natale in ritardo, Santa Claus guida le renne. Lui, una scassatissima Renault.
Quello piccolo era veramente piccolo. In realtà di statura media, trattandosi di un nano. Nonostante i trentatré anni, aveva una faccia da bambino. Si chiamava Jesus. Nonostante il freddo porco, era vestito solo di un lenzuolo della madonna che, volendo, avrebbe potuto anche fargli da coperta. In effetti, ci dormiva dentro. L'unica cosa che aveva in comune con il suo corpulento partner in crime erano gli occhietti rossi che sprizzavano cattiveria etilica. Jesus
avrebbe perfettamente incarnato un pollicino perverso, un allucino ﴾un piccolo alluce﴿ allucinato. Naturalmente non era Gesù bambino in colpevole ritardo rispetto al proprio genetliaco. Gesù bambino si pasce tra un bue e un asinello. Lui, mandava ogni piano in vacca.
Il piano di Klaus e Jesus era genialmente primitivo. Nei giorni successivi a Natale, quando i veri ﴾?﴿ Santa Claus e Gesù bambino portavano doni ai bambini per interposta persona, loro due andavano a recupero. S'introducevano in villette isolate ai bordi di una Milano espansa ed espansiva. Razziavano. Stupravano. Picchiavano a sangue, a volte uccidevano, per poi sparire con la refurtiva sino alle prossime feste di Natale. Erano sadici da tredicesima. Animali
feroci da post Jungle Bells. Creature della giungla metropolitana che dopo l'Epifania andavano in letargo. Poi, sparivano nel nulla delle stelle gelide da cui erano scesi.
Stella cadente aprì la porta della sua villetta di Cubano Milanino, Milano Ovest. Sulla telecamera collegata al citofono, aveva visto una sorta di parodia tragica di Babbo Natale. Il Gesù bambino nano le era sfuggito. Essendo nano, appunto.
Lei non aveva paura di niente e di nessuno.
«Ah! Babbo Natale, e guarda un po', anche Gesù bambino...» commentò accorgendosi della presenza di Jesus «...vi vedo malconci e leggermente incazzati. Scommetto che appartenete alla stupida categoria degli strenui difensori del Santo Natale. Presumo che il motivo della vostra visita sia legato al mio articolo su Donna con le palle in cui affermo che Babbo Natale sia in realtà Mamma Natale e che Gesù Bambino sia, nonostante il maschilismo, Gesù bambina. Gesuina».
Klaus e Jesus si guardarono interdetti per una manciata di polvere di fate. Poi Klaus prese l'iniziativa. Ammollò uno sganassone postnatalizio a Stella che cadde al suolo. Ma l'exetèra
femminista non attese il gong. Si rialzò e colpì al naso il ciccione senza dimenticarsi di sferrare una ginocchiata alla testa del nano.
La fortuna aiuta le audaci ma solo sino a un certo punto. Klaus, ripresosi, riuscì a piazzare un pugno tamponato al cloroformio al naso di Stella. Stella Cometa perse i sensi, posto che Stella Cometa abbia un senso.
Quando si riprese, l'ex etèra si ritrovò incastrata nel pentolone di famiglia, un caro ricordo dei tempi in cui serviva il pranzo agli adulti in difficoltà nel dormitorio di viale Ortles insieme agli altri Vip benèfici che collaboravano con i City Angels, i volontari del bene, i cherubini della sicurezza e del disagio sociale.
La prima cosa che notò fu Jesus che si era denudato.
La seconda a entrarle in testa fu una focalizzazione sulla storia dell'arte: solo due artisti smutandanti avevano ritratto Gesù bambino nudo, non senza suscitare scandalo. Due artisti senza fasce: Beato Angelico, un nome un programma, e Lorenzo Monaco, anche lui, come predestinazione non scherzava.
«Adesso ti bolliamo viva» disse Jesus.
«Prima ci dovevi mettere il sale. Coglioncello» lo fulminò Stella.
Klaus che era meno sadico del nano ma più sessualmente rapace, chiese al socio «Bollirla e basta è uno spreco, posso farle la festa?».
«Falle la festa» concesse Jesus
La situazione stava degenerando. Anche se non siete di madrelingua inglese, penso che possiate avere un'idea fonetica e semantica del «Torture porn» ﴾un sottogenere cinematografico﴿, non preoccupatevi, non arriverò a tanto. Tanto vi ho già conciato per le feste.
«Ascoltami Klaus, ripensandoci, c'è voluta tutta la tua stazza per infilare quest'ammasso di lardo nel pentolone».
«Hai qualcosa contro gli ammassi di lardo?» s'informarono simultaneamente l'uomo in rosso e la signora nel pentolone.
«No. Figuratevi! Si tratta di un problema tecnico, non volevo offendere nessuno». In fondo Jesus era educato. Male, ma era educato.
«Il fatto è, mi sto rivolgendo a te Klaus, avresti potuto pensarci prima. È stata una faticaccia. Se proprio vuoi sollazzarti con questa polpettona, devi gestirtela tu, io mi limito alla tortura».
«E invece io, sono mia e mi gestisco io» ribadì Stella cadente. In effetti, era una donna speciale, come quasi tutte le donne sotto le stelle. Da guardare e non toccare, se non con il loro consenso. Stella era sempre stata una donna libera, il che non aveva impedito che al momento fosse imprigionata in un pentolone.
La notte delle feste stava trasmutandosi in una notte di Fiesta de sangre senza tori, senza corride, senza García Lorca, porca lorca.
Tensione al massimo. Un nano e un omaccione, figli di una giungla di palle luminescenti, si stavano sfidando a chi fosse più cattivo. Bella lotta!
Klaus era un predatore d'argenteria e di argento vivo. Jesus un modesto lucidatore di bare.
«Che ne facciamo di questa zoccola?» chiese Klaus al socio dominante.
Stella Cometa rispose invece di Jesus: «Cosa fare di me? Lasciatemi uscire da questo stupido pentolone e ve le suono a tutt'e due. Maschilisti del Klaus».
Klaus si rese conto che Stella sarebbe stata in grado di farlo, non appena si fosse liberata, perché era una donna libera.
«Senti, bolliamola e basta».
«Non ci avete ancora messo il sale, coglioncelli!».
«Dov'è il sale?» chiese uno dei due aguzzini.
«Ho proprio a che fare con degli incapaci. Siete riusciti a trovare un pentolone zanzato, da Mario Furlan dei City Angels, e non siete in grado di trovare del sale per cuocere».
Quando hai le palle, hai anche le palline da albero di Natale per infilzare ed addobbare. Un finto Babbo Natale e un finto Gesù bambino, due autentici babbi di minchia. Non sono all'altezza.
L'epilogo grandguignolesco di un rito omicida che avrebbe generato proseliti, non aveva previsto il pronto intervento di qualcuno, qualche due. Questi due qua.
Il ciccione era vestito da Babbo Natale perché era Babbo Natale. Il bambino indossava la veste di Maria che gli faceva da coperta. Non è che andassero molto d'accordo.
«Perché io devo portare i regali e tu ti limiti a ricevere oro, incenso e mirra, dai Re Magi?».
«Perché io sono un donatore sano» rispose Gesù bambino.
«D'accordo, abbiamo fatto il nostro tempo. Io sono eternamente vecchio e tu eternamente bambino. Però anche se siamo in ritardo, direi che è il caso di intervenire, da qualche millennio».
«Hai mai visto gli ultimi film di Sylvester Stallone, ormai bollito?».
«Non vado al cinema».
«Neanch'io».
«Beh, che uno creda o meno in noi, gli spetta una sorta di regalo: la giustizia. I cattivi devono essere puniti e noi fino a prova contraria, siamo contro i cattivi, a favore del beau geste».
Nonostante Santa Claus non si fidasse di Gesù bambino e viceversa, era necessario un intervento, tardivo rispetto al calendario ma assolutamente efficace.
I due veri ﴾?﴿ Babbo Natale e Gesù bambino stabilirono un piano d'azione e lo applicarono.
Stella non era alla frutta, era al sale. Una cosa in cui credi prima che qualcuno ti bollisca.
Due leggende irruppero nella realtà. Nonostante nessuno dei due fosse violento, Santa Claus stese Klaus e Gesù bambino stirò Jesus alla stessa altezza.
Stella Cometa, dal pentolone, scoprì che anche chi non ha fede può incontrare persone di cui fidarsi.
«Siamo arrivati in ritardo» disse Santa Claus a Gesù bambino.
«Non è questo il problema. Cosa ne facciamo di questi nostri squallidi plagiari?».
«Io, personalmente, li darei in pasto alle mie renne».
«Ma le renne non sono carnivore» obiettò Gesù bambino.
«In certi casi mi avvalgo della collaborazione di renne mannare. E tu?».
«Io, se fosse per me li crocifiggerei ma siccome ci sono già passato, sarei per il perdono».
«Bueno».
Klaus e Jesus ﴾il finto Babbo natale e il finto Gesù bambino﴿, si accorsero improvvisamente di essere stati miracolati.
Stella Cometa scoprì che di certe leggende ci si poteva fidare. Poi arrivò la Befana.
IL GIORNO
08 DICEMBRE 2016
CULTURA
"La capanna dello zio rom": un noir contro i pregiudizi
Andrea Pinketts e la sua Milano fuori dagli schemidi GIUSEPPE DI MATTEO
Andrea Pinketts
Milano, 8 dicembre 2016 - Alla fine della storia ti senti un po’ strano. Il ritmo narrativo segue una logica tutta sua: i personaggi ondeggiano sulle pagine, quasi divorati dalla loro stessa vita metropolitana in una Milano in preda a un disfacimento violento e a tratti bizzarro. Per leggere “La capanna dello zio Rom” di Andrea G. Pinketts (Mondadori) è consigliabile tenere alta la concentrazione, anche se a volte si ha l’impressione di perdere la bussola assistendo impotenti a una guerra di strada combattuta a suon di armi e forchette, raccontata con uno stile che mescola con arguzia poesia e tragedia. Ma alla fine il vincitore è sempre lui, Lazzaro Santandrea, segugio «esperto di resurrezioni» con un passato televisivo che si ritrova con il suo fare da gangster un po’ dandy (e viceversa) nel bel mezzo di una lunga catena di omicidi tra Milano e la Fiera del libro di Bucarest passando per la capanna dello zio Rom, una discoteca della periferia milanese che ospita esistenze strampalate e un piano diabolico di riscatto sociale che incarna un mito di palingenesi al contrario.
Pinketts, mi tolga una curiosità: che tipo di romanzo è “La capanna dello zio Rom”?
«Certamente non un giallo. Io non ho mai scritto opere di questo tipo, anche se qualcuno mi ha definito il fondatore del noir di seconda generazione accostandomi a Fois e Lucarelli. In realtà il mio è un romanzo circense che ha per protagonista un grande domatore di leoni che gioca con l’equilibrio come io con le parole».
Lo stile del racconto è volutamente ironico e aggrovigliato, quasi a indurre un po’ di confusione nel lettore. Perché questa scelta?
«Questo libro è una specie di cavallo di Troia: attraverso il meccanismo del tendone da circo puoi dire quello che vuoi e a me piace farlo disorientando, raccontando il sociale e l’asociale, le risse da cortile e le poesie cantate. In fondo il confine tra farsa e tragedia ha la consistenza di un perizoma».
Al di là della trama il suo è anche, o dovrei dire soprattutto, un racconto che ha un grande significato sociale, perché sfata alcuni luoghi comuni.
«Assolutamente sì. Non a caso l’ho spesso definito un libro contro l’ignoranza, perché è nell’ignoranza che prolifera il razzismo. Le faccio un esempio: molto spesso i rom vengono confusi con i romeni e dipinti come criminali senza scrupoli. Il che è una stupidaggine. Nel mio racconto infatti diventano vittime, come spesso accade nella realtà, anche se poi non se ne parla. E per sdrammatizzare sono anche arrivato a scrivere che in realtà i rom derivano da Romina Power».
Sbaglio o in Lazzaro Santandrea c’è molto di Andrea Pinketts?
«C’è tantissimo. Direi che è il mio alter ego, può permettersi di dire cose delle quali io non posso parlare per non passare qualche guaio (ride). Ma Lazzaro è anche un grande avventuriero di se stesso o, se si vuole, un antieroe picaresco di una Milano che cambia al ritmo delle sue generazioni. Tra l’altro, questa è la sua ultima battaglia: se “Il conto dell’ultima cena” era il quarto romanzo di una trilogia, “La capanna dello zio Rom” è l’autentico libro, decisivo e definitivo».
Sta dicendo che dovremo abituarci a un Pinketts senza Lazzaro Santandrea?
«Sì. Sto infatti pensando di dedicarmi a tutt’altro. Posso solo dire che si tratta di un progetto che coinvolgerà arte e moda».
https://www.google.it/amp/www.ilgiorno.it/cultura/pinketts-capanna-zio-rom-1.2738125/amp?client=safa...
30 cc LIBRI E CLASSIFICHE
•* recensioni
<LA CAPANNA DELLO ZIO ROM>
Pinketts risorge (come il suo Lazzaro)
Domenica 4 dicembre 2016 I il GIORNALE
Massimiliano Parente
Insomma, leggendo l’ultimo romanzo di Andrea Pinketts viene spontanea una domanda: perchè Pinketts è sempre stato ignorato dai premi cialtroni italiani, come il Premio Strega? Forse proprio perché sono cialtroni. Nell’ultimo romanzo di Pinketts, La capanna dello zio Rom, toma per l'ennesima volta Lazzaro Santandrea, alter ego dello scrittore e io narrante di grottesche avventure in una Milano mai così noir e surreale. Volendo è perfino un romanzo impegnato, difensore dei rom, perchè si può trovare umanità anche in chi fruga nella spazzatura facendo dumpster watching, per necessità о per spirito antropologico, come il professor Zappalanima, esimio docente di sociologia.
Tra ex attori, ex architetti, ex riusciti e ex falliti, in un mondo di ex che non sono riusciti a fare quello che volevano nella vita, ci sono anche quattro rom assassinati nell’indifferenza collettiva, e per il resto ci si perde in una serie di surreali avventure affabulatorie intorno al locale che dà il nome al romanzo, dove canta una coppia di inquietanti sorelle, le sorelle Pozzi, con tanto di rissa, coltellate e forchettate. Si parla molto di amore, di morte, di giovinezza perduta, di sigari e di rum. Inoltre Lazzaro ha ormai compiuto cinquant'anni ma non ha perso «il senso della frase» (titolo di uno dei primi romanzi di Pinketts) e dispensa aforismi, digressioni, calembour e riflessioni appena può. Un ginepraio, per esempio, qui «non è altro che un alveare del gin, un alveare di terrificanti realtà». Quando si diventa maggiorenni? A diciotto anni? «Che paradosso! Uno dovrebbe raggiungere la maggiore età a novant'anni in modo da godersi gli altri settantadue anni di spensieratezza, finanziata da genitori centottantenni». Chi cerca l’amore non lo troverà mai, perchè «uno non capisce l'altro, come in tutte le storie d’amore, ma vi si assoggetta».
Un libro ottimo anche come manuale per alcolisti e fumatori con senso di colpa salutista, Lazzaro ci libera tutti: «Non nego che siano birre analcoliche e sigarette elettroniche. Ma oltre al sapore ci vuole il gusto. Il gusto di apprezzare le conseguenze di ciò che sei in grado di risolvere, dopo un numero imprecisato di birre che chiameremo X, con uno spavaldo Antico Toscano pendulo sulle tue labbra, tra le tue labbra, già vagamente masticato». Unica avvertenza, non cercate differenze tra Lazzaro e Pinketts: sono la stessa prima persona.
Andrea G. Pinketts La capanna dello zio Rom (Mondadori, pagg. 388, euro 19)
DA manuale Andrea G. Pinketts, nato a Milano nel 1961
Storie, incontri e amori di uno scrittore che vive, prima di raccontare
Da Andrea Russo - ottobre 6, 2016
É difficile confondere Andrea Pinketts con altri scrittori o personaggi noti al grande pubblico. I motivi sonodue. Il primo riguarda il suo stile di scrittura giocoso ma sfaccettato, che cela una gamma di stati d’animomolto vari.
All’iniziale gioco con le parole e con gli eventi narrati (che il lettore da subito deve accettare, se vuole andare oltre) si aggiungono altre letture più profonde ed esistenziali. L`identificazione tra l`autore ed il suo alter ego Lazzaro Sant’Andrea si alterna con quella di qualsiasi lettore, che, come spesso accade, può rispecchiarsi in uno dei personaggi del libro.
Il secondo motivo che rende Andrea Pinketts ulteriormente riconoscibile come unico (noi tutti lo siamo, del resto) è il suo carattere gioviale e aperto, diretto, di chi ti racconta la sua verità senza tanti giri di parole. Eppure lui dimostra di conoscere piuttosto bene l’animo umano, che è a volte contraddittorio e difficile da decifrare.
Pinketts é stato protagonista di tante avventure, sia sul piano personale che professionale. Ha attraversato le vite degli altri e le ha fatte sue. Probabilmente non si stancherebbe di andare avanti ad oltranza e all’infinito.
Lo abbiamo incontrato in occasione della presentazione del suo ultimo lavoro, “La capanna dello zio Rom”, a Recanati. Abbiamo incominciato a ricostruire il suo percorso partendo dall’inizio…
Quando è iniziata per te, la passione per la scrittura?
“Fin dall’infanzia, quando in prima elementare iniziai ad apprendere le lettere dell’alfabeto. Mi affascinava seguire le loro forme. Le parole sono belle, così come le singole lettere. C’è una alternanza di linee orizzontali e verticali, di linee dritte e ricurve”.
E per quanto riguarda il giornalismo?
“É stato un incontro spontaneo, quello con il giornalismo. Mi ha permesso di fare quello che mi piaceva e che mi aggrada tuttora: andare in giro, conoscere persone nuove, intrufolarmi in ambienti diversi per fare qualche scoop. Con Onda Tv, che era una settimanale piuttosto in voga negli anni ’80, ho intervistato qualche personaggio noto, come Pippo Baudo. Mi ha dato però molta più gioia stare in contatto con le belle ragazze a cui fare domande, ovvero le vallette. Ne ho tratto spunto per il mio saggio breve: “La Valletta dell’Eden”. Ho conosciuto tante belle donne, nel corso degli anni. Se ci ripenso qualcuna ha lasciato il segno ancora adesso, come la mia ultima consorte. Del resto da giovane ero bello (anche se ora sono bellissimo) e facevo i fotoromanzi e le pubblicità (ho posato per Armani). Con le riviste femminili ho avuto una intensa collaborazione: Cosmopolitan, Grazia, Gioia… ero uno dei pochi uomini. Che volevo di più? Pagato e beato fra le donne…”.
Io so però che ti sei infiltrato in tanti ambienti, rischiando per giunta…
“Con Esquire e Panorama mi sono dato al giornalismo investigativo. Sono stato per un mese un finto barbone alla stazione di Milano e ho capito come la gente diventi cattiva e cinica, in determinate circostanze. Ho fatto l’attore porno con il nome di Udo cuoio. Sono stato lo Sceriffo di Cattolica grazie ad una splendida collaborazione con il sindaco Gianfranco Micucci, negli anni ’90. Cattolica, almeno all’epoca, era una città viva e gioiosa, in cui mi sono sentito a casa. Fare lo Sceriffo per me consisteva nell’infiltrarmi in gruppi di camorristi che si stavano insediando coi loro traffici, in quella bella zona di mare: ne feci arrestare parecchi”.
E c’è un retroscena che molti non sanno…
“Quando arrivò il momento di riconsegnare la spilla di Sceriffo, il sindaco Micucci fece un gioco di prestigio. Io gli diedi la spilla ufficiale, di metallo. Lui ne tirò fuori dalla tasca un`altra di plastica, poi la mise sul tavolo e se la reinfilò in tasca, lasciandomi quella originale. Fu un gesto non solo simbolico ma sostanziale. Il significato era: “Ti lascio la spilla così resterai sempre lo sceriffo di Cattolica”. In realtà dunque, il mio mandato non è scaduto, perchè ho ancora la stella in stile far west originale”.
E come andò invece con i “satanisti”?
“Mi infiltrai tra i “Bambini di Satana”, a Bologna, che avevano a capo Marco Dimitri. Non bisogna confonderli però con le “Bestie di Satana”, che sono gruppi molto piú violenti. Ci fu un episodio in cui ebbi davvero paura. Innanzitutto specifichiamo che questa associazione era composta di persone annoiate, spesso anche detentrici di una posizione sociale rilevante. Organizzarono un’orgia in un parco. Bisognava penetrare a turno una ragazza che era sotto l’effetto di sostanze, probabilmente. Il problema per me era triplice: fare sesso con la ragazza, che era molto in sovrappeso e quindi rischiavo di non riuscirci; stare attento ad uno incappucciato che brandiva una spada proprio dietro alla mia schiena e che mi avrebbe potuto fare a pezzi; inoltre, dietro a un cespuglio era appostato un fotografo e non dovevamo farci scoprire. Nonostante tutto, quando presenziai come testimone al loro processo io ebbi un ruolo non solo da accusatore, ma in qualche modo li scagionai parzialmente. Il Procuratore della Repubblica, infatti, riteneva che ci fossero delle violenze, in quella setta, che io non vidi mai”.
Lazzaro Sant’Andrea sembra un personaggio un po’ fumettistico…
“Infatti lo è. Io ho lavorato anche nel mondo dei fumetti, con Sergio Bonelli. Lazzaro è uno che si rialza sempre e che sembra sparire nel nulla alla fine del romanzo precedente per poi ricomparire in quello successivo. Del resto Lazzaro, (quello originale) è stato il primo zombie della storia. Lazzaro… Lazzarone… è un bel nome. Sant’Andrea, il cognome che ho scelto, è un po’ un contrappeso di bontà. In fondo, il mio alter ego è buono come lo sono io… I miei romanzi sono pieni di ironia, ma c’è un fondo di profonda tristezza e di ricerca del fondo del barile. Descrivo l’umanitá nei suoi slanci di nobiltá d’animo ma anche nelle sue nefandezze”.
Lazzaro, nel suo piccolo, cerca di salvare il mondo…
“In ogni romanzo difendo qualcuno, anche in “La capanna dello zio Rom”. Se non c’è un po’ di solidarietà, di bontà che si oppone al razzismo e alla paura dell’altro, il mondo non ha speranza”.
Siamo a Recanati, la cittá di Leopardi. Tu peró assomigli molto piú ad Ugo Foscolo, che amava molto le donne, viaggiava e affrontava la vita con piú disonvoltura.
“Sì, è così, anche se lo Zibaldone di Leopardi è uno dei libri piú belli tra quelli che ho letto. Citando Lelouch, che giró “Una vita non basta”, io di vite ne ho vissute 50. Sono stato tante persone, ho vissuto le esistenze degli altri. A tratti sono stato solitario e vagabondo, cupo come l’ottimo personaggio dei fumetti Dylan Dog. Io penso che i protagonisti che piacciono sono in genere un po’ bricconi. Non sono necessariamente cattivi, ma veri. La vita và vissuta fino in fondo e il vero peccato è non farlo…”.
Libero
25 AGOSTO 2016
Libero CULTURA
ALLA SCRIVANIA
Lo scrittore e giornalista milanese Andrea G. Pinketts (1961 ) seduto, come d'abitudine, ai tavolini de «Le Trottoir».
Lazzaro resuscitato dalla gnocca
Lo scrittore milanese racconta la sua disperazione esistenziale e in modo surreale ci spiega come alla fine si può vivere soltanto con una bella ragazza
::: Edoardo montolli ■■■
Alla Capanna dello zio Rom non bisogna fidarsi di nessuno. Perché nell’immaginario locale che dà il titolo all'ultimo noir di Andrea G. Pinketts (Mondadori, pp. 388, euro 19) il Male può indossare i panni di chiunque. Siamo al capitolo nove della saga di Lazzaro Santandrea - l'ultimo, giura lui - in un circo di orrori commessi all'ombra del misterioso Esecutore. E preparatevi a rimescolare ogni vostra credenza sul noir. E pure sulla struttura formale dei libri. Perché Pinketts interviene nella vicenda del suo alter ego Lazzaro alla stessa maniera in cui Stan Lee si presenta nei film della Marvel. Anzi, molto di più. Parla e divaga, trovando proprio nella divagazione la soluzione a ogni enigma. «È un romanzo politicamente scorretto, che lo si guardi da destra, da sinistra о dal centro. Diciamo che va letto di sghimbescio».
A Le Trottoir, sulla Darsena di Milano, dove Pinketts scrive tutte le sue opere, sta seduto a un tavolino, toscano in bocca, cappellino e camicia hawaiana. Sempre li ha immaginato il più surreale dei titoli di un noir: «Frequentando quotidianamente romeni, mi ero accorto della grande ignoranza che circola, anche sui giornali, quando si confondono romeni con rom solo perché la radice della parola è identica. Se è per questo è identica anche a romani. La Capanna dello zio Tom non aveva affatto estinto i pregiudizi, anzi. Io invece volevo restituire almeno un'identità ai rom. Ai sinti. Ai rom spagnoli che, peraltro, odiano i rom romeni. Ai romeni che, peraltro, odiano tutti i rom. In generale raccontando i pregiudizi sui rom che, peraltro, non è mica vero che siano tutti delinquenti». Ma non pensate a un romanzo sul razzismo: «Il razzismo è una cosa superata. Razzisti e anzirazzisti si equivalgono, come credenti ed atei: ammettono l'esistenza о la non esistenza di un problema che non conoscono. Infatti nella Capanna dello zio Rom ci sono pazzi incendiari di campi rom e buonisti che fanno invidia ai peggiori razzisti. Il razzismo esasperato e il buonismo esasperato producono orrori perché non tengono conto della realtà».
Anche se l'antidoto, almeno nel romanzo, per non farsi risucchiare dall’odio, esiste. È la ragazza di cui si innamora Lazzaro, una tipa a dir poco strana. Si chiama Ossitocina «come l'ormone dell'amore e dell’empatia». Ed è l'antidoto forse perché si comporta al contrario di come va il mondo: Lazzaro la vede fuori da un supermarket, mentre aspetta che il cane le porti fuori la spesa. Come dire che l'imprevedibile è ciò che ci può salvare. E imprevedibile è tutta la gang di Lazzaro, personaggi reali che si muovono agevolmente nella Milano di notte, dipingendola in maniera grottesca, come il pittore Giuseppe Veneziano. О attraversandola in lungo e in largo come Pogo il Dritto, architetto che ha appeso la laurea per diventare taxista. О frugando tra le scorie delle periferie per scrivere inchieste. Come Edoardo Montoya, un cronista tarchiato che fuma una sigaretta dietro l'altra e che solo incidentalmente ha una vaga somiglianza con chi scrive. Lazzaro ha dalla sua la curiosità e l'ormai celebre «senso della frase» per risolvere i misteri, scritti da uno, Pinketts, che Mistero, in tv, l'ha condotto: «Un'esperienza interessante. Da agnostico mi continuo a stupire della credulità popolare come dell'incredibile. Al Castello di Bernabò Visconti, luogo di leggende nere, ho percepito davvero una sensazione di malessere».
Non mi dire che inizi a credere nell'aldilà.
«Sono reduce da un'anestesia totale. Per un certo periodo ho avuto allucinazioni».
Sarà mica la luce in fondo al tunnel?
«No. Sognavo di essere aggredito da bastoni da passeggio col muso di anatra. Diciamo che sono uscito dal tunnel come un vero gentleman, ossia con un bastone da passeggio».
Lazzaro ha 50 anni. Un po' è acciaccato quando deve fare una rissa. Ma per scriverne l'ultimo libro sei tornato ragazzo tu, quando ti travestivi da clochard, da satanista per fare un'inchiesta giornalistica.
«A Bucarest più volte sono stato ospite al Festival del libro. Ho potuto apprezzare la parte della città che fu una piccola Parigi, così come gli orrori architettonici di Ceausescu. E ho pure potuto constatare che molti lo rimpiangono perché all'epoca avevano il posto fisso. Ma di sera mi sono addentrato nelle periferie per verificare la leggenda peggiore che circonda Bucarest. E, dannazione, ho visto che è realtà: davvero ci sono i bambini che sniffano colla vivendo nelle fogne».
Non manca una frecciata ai salotti della tv, dove spesso si discute di omicidi tra uno spot e l'altro.
«Più che altro ce l’ho con la tv del pressapochismo, con la lacrima facile e la finta indignazione».
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Corriere della Sera
22 AGOSTO 2016