Può una panchina essere gioiosa, felice, accogliente come un nido di morbide piume che ride sotto il sole? Può e, in alternanza, il rovescio della medaglia il cui oro si è sbiadito, non brilla più. Il tempo che passa è stato inclemente ma il tempo è sempre inclemente.
Da un po' di tempo riaffiora in me il ricordo di quella panchina, della sua, della mia solitudine. Ero una giovane ragazza e avevo accanto il calore, gli abbracci e le carezze di un gigante biondo. Un atleta. Era appena tornato da Helsinki in Finlandia per i giochi olimpici del '52.
Il suo profumo di giovinezza, di erotismo controllato (come si usava a quei tempi) mi stordiva, immersa com'ero in quell'atmosfera che ti brucia sulla pelle e non solo sulla pelle.
Il tempo felice passò, l'ardore si spense, la panchina conservò a lungo il calore di quell'amore finito, se mai era stato amore. La panchina rimase vuota, ferita.
Da qualche tempo m'intenerisce il cuore, il ricordo della fine di quel tempo felice e di quella panchina, dove vissi i primi palpiti della pelle, del cuore, della mente, della fantasia.
Passarono dieci anni. La vita, con le vicende sempre alterne, cancellò quel sentimento lasciando spazio ad altri amori fugaci o duraturi, non so. Non si può misurare l'amore con una clessidra distratta, né l'intensità di una storia, né la durata.
Ma avvenne che nel mese di agosto io tornassi in quella città assolata, quasi implacabile nel suo sole estivo. Tornai e mi sovvenne qualcosa. Salutai le fronde degli alberi annosi che proteggevano da sguardi indiscreti il piacere di quel sentimento che avvinghiava me e il mio atleta biondo di cui naturalmente, come sempre accade, avevo perso ogni traccia. Era ferragosto e la città, assonnata di suo, era silenziosa, come indifferente a quanto accadeva nelle spiagge, sui monti, tutti presi dal desiderio di voler dare una veste ludica a quella giornata. Io, attraverso il parco, salutai gli alberi che avevano proseguito senza di me e ritrovai la mia, la nostra panchina. Mi prese allora una profonda malinconia per tutto quello che il tempo mi aveva rubato. La solitudine che quasi sempre è una ricchezza, m'invase e mi lasciai trasportare dai ricordi, accarezzai la panchina e mi parve di sentire le assi quasi cigolare. Erano stati i temporali, la pioggia, il freddo, che l'avevano dissestata.
Tornai allora alla mia realtà, ai rumori accoglienti della città, alla metropolitana che ti abbracciava rudemente e fragorosamente con una carezza, un abbraccio cosmico. Ma era una premonizione questo mio sentimento che ancora custodivo. Erano passati dieci anni, ero diventata mamma e tornai nel parco verde da dove sulla famosa panchina tu giocavi. Ero radiosa di quell'amore nuovo che cancellava tutti gli altri. Era agosto e non tornai più in quella città. Intorno a me si era fatto il vuoto.
Il tempo ha stravolto il passato lasciando solo una scia talvolta luminosa come un fuoco d'artificio fugace e illusorio la cui intensità si è attenuata fino a scomparire. Ora mi avvolge il silenzio e l'assenza.
La panchina dei miei sogni di fanciulla innamorata sarà ormai divelta così come lo è stata la nostra vita da quando tu, Andrea, mio figlio bambino, sei andato via.
Mi piace pensare che alle spalle di ognuno di noi ci sia una panchina solitaria.