In quell’estate dell’87

Era l’estate del 1987. La Milano da bere era quasi al tramonto e inconsapevolmente si stava per tuffare - come un’oliva nel Martini - negli anni movimentati di Mani pulite. Un altro tipo di movida.

In Piazza Bolivar c’era una gelateria bazzicata da una compagnia di ventenni. “La compagnia del fil di ferro” l’aveva ribattezzata mio padre, a significare che era una di quelle compagnie nate per caso e che non sarebbero durate a lungo, giusto il tempo di ritrovarsi prima delle vacanze e poi, a settembre … chissà.

Tra gli avventori spiccava un ragazzo un po’ più grande di me: era Andrea G. Pinketts. Abitava sopra la gelateria e la sua presenza non era fissa, ma quando c’era, attirava i ventenni come i gelati attirano i golosi. Era già un personaggio, vestiva in modo originale, sempre molto colorato e sapeva indossare qualsiasi capo con un’innata eleganza: d'altronde, si diceva, aveva fatto il modello pubblicitario per l’agenzia Caremoli. I miei coetanei erano affascinati dal suo essere sregolato e genio (la G. prima del cognome non era un semplice vezzo) e rimanevano incantati ad ascoltare le sue storie di Vera Vita Vissuta, raccontate con grande eloquio e con un buon Toscano sempre tra le dita.

A me, ventenne con poca esperienza della vita, lui metteva soggezione: aveva solo cinque anni in più, ma la sua altezza e la sua voce resa profonda dal fumo dei sigari, m’intimorivano.

Andrea, ma per tutti era “Il Pinketts”, abitava da sempre nel quartiere con la sua mamma Mirella.

Un giorno la tranquilla vita a bordo della gelateria venne scossa da un manoscritto. L’aveva portato Monica, la sorella di Gianmario, che con Stefano e Nicola era uno degli affascinati dai racconti di Vera Vita Vissuta. Si trattava di un manoscritto battuto a macchina, rilegato a spirale e con la copertina in acetato. Nel 1987 si usava così. Monica, che abitava anche lei in Piazza Bolivar, lo aveva ricevuto direttamente dal Pinketts, l’aveva letto e ne era entusiasta: “Dovete leggerlo assolutamente!”. Quando hai vent’anni nel 1987, fa caldo, sei nel limbo formato “attesa delle vacanze” e mangi gelati ascoltando le storie di  Vera Vita Vissuta fantasticando su quale sarà la tua, non puoi dire di no.

Così quel manoscritto passò di mano in mano, di casa in casa e venne restituito puntualmente al suo autore perché noi ragazzi degli anni ’80 eravamo di parola e leggevamo.

Io lo lessi tutto d’un fiato: era un thriller ambientato tra Milano e il Trentino – regione di origine di Andrea dove da bambino trascorreva le vacanze estive a casa della nonna – e, nonostante il genere, quel manoscritto faceva ridere, molto ridere; i giochi di parole, in primis, quasi dei non sense che per noi avevano un senso poiché tutti frugavamo tra le pagine per recuperare pezzi di Piazza Bolivar e dintorni poiché sapevamo che lui, già grande futuro scrittore, aveva camuffato e romanzato pezzi di vita. La sua vita. E magari la nostra.

Monica continuava a ripetere che doveva assolutamente essere pubblicato, che dovevamo aiutarlo, proporlo a qualche casa editrice. Beata ingenuità… ops, gioventù.

Arrivarono le vacanze, la compagnia si sciolse, poi con la caduta delle foglie si ricompose per poi sciogliersi definitivamente con l’arrivo dei primi freddi. “Compagnia del fil di ferro”, appunto! Ognuno di noi iniziava a vivere la sua vita di giovani adulti cercando di realizzare il proprio sogno. Ogni tanto il pensiero andava a lui e a quel manoscritto che tanto aveva segnato la nostra estate dell’87.

Con il passare degli anni avevo notizie del Pinketts dai giornali, dalla TV (mitiche le sue partecipazioni al Maurizio Costanzo Show) o da mia madre che frequentava la mamma di Andrea e sapevo tutto dei suoi romanzi, delle sue intemperanze, del suo “ufficio” a Le Trottoir – prima in Corso Garibaldi, poi al Ticinese - e delle sue numerose stilografiche che spesso perdeva: avere una Montblanc tutti i Natali era la sua personale tradizione natalizia. Scrivere un romanzo con una Montblanc tra le dita tenendo contemporaneamente un sigaro e un bicchiere non è da tutti… quella G, in fin dei conti, non era un caso. Funambolo delle mani e funambolo della parola.

Ogni tanto lo incontravo in Piazza Bolivar dove camminava indossando colorati cappelli, sempre portati con eleganza e con l’immancabile rassegna stampa sotto il braccio. Ogni tanto mi salutava, a volte, invece, non mi vedeva, perso com’era nei suoi pensieri. Un giorno lo incontrai all’edicola e mi chiese se ero ancora sposata. “Da cinque anni” risposi. Ammutolì per poi dirmi con un gran sorriso vagamente affettuoso accompagnato da uno sguardo liquido “Un record, di questi tempi. Questa sì che è una notizia!”. Da quel momento la mia soggezione svanì magicamente.

Dopo aver seguito qualche puntata di Mistero, lo vidi l’ultima volta alla presentazione di un suo libro a Chiavari ed ebbi la conferma di quanto fosse arguto, disponibile  e di gran cultura.

Tirerò fuori dalla libreria ‘Lazzaro Santandrea’ il suo alter ego, la cui storia era stata battuta a macchina e rilegata con la spirale che tanto ci fece emozionare, ridere e sognare in quell’estate dell’87 alla gelateria di Piazza Bolivar. Solo che il Lazzaro che verrà fuori dalla mia libreria ha una copertina colorata, il logo di una casa editrice (MM Edizioni) e reca la data del 1992.

La Monica ci aveva visto lungo.

(Simona Borgatti)

*** 

  Il tempo mi è nemico, mi porta lettere, pensieri, ricordi. Non sempre il mio cuore greve dal distacco, del silenzio che mi circonda, mi consente di rispondere a breve termine. Per questo ritardo, mi permetto di chiederti scusa se ho abbreviato la tua lettera, lasciando ovviamente il contenuto più importante che riguarda l’immagine che tu hai di mio figlio. La sua aria di duro (ma aveva anche delle dolcezze che naturalmente non riservava a tutti, come è giusto che fosse), i suoi sigari, i colori vivaci che ostentava, il suo camminare imperioso, la sua sicurezza, i cappelli prestigiosi (tutti rigorosamente Borsalino), il sigaro, il boccale di birra, che disegnavano il suo personaggio così eclatante, carismatico. Emanava il fascino del suo aspetto, della sua immensa cultura, della consapevolezza di chi era e di chi sarebbe diventato.

Lui giocava con le parole, come un artista di strada, mutandole, come un miracolo, in storie incredibili, che attiravano  e creavano personaggi indimenticabili, con atmosfere magiche.

Andrea con Morgan era il re della notte dalla quale traevano insieme personaggi che rimangono scolpiti nella memoria. Morgan, suo compagno di strada, componeva le sue canzoni più belle, più intime, arrapanti sul piano fisico e spirituale. Marta Marzotto, grande amica di Andrea e cultrice appassionata e coloratissima dell’arte, espressa con qualsiasi sfumatura, si univa, talvolta fisicamente e sempre spiritualmente, in questi vagabondaggi letterari, musicali, artistici.

La genialità va di pari passo con la mancanza assoluta di immobilità spirituale. La fantasia ammuffita dal quotidiano, è l’incapacità di volare lontano dove non arriva.

Loro se ne fanno proprio un baffo!

Tanto di cappello, sussurra la Marta (alla milanese) e mi arrivano, stupendomi, dal sussurro di una nuvola, due risate scroscianti che inneggiano la stravaganza.

Ricordo la gelateria, mi pare che fosse azzurra. Naturalmente le mamme erano assenti. Le pareti emanavano giovinezza, illusioni, sogni. Quelli di Andrea si sono realizzati, anche di più. La genialità è anche compagna di incongruenza ma esplode nel luogo e nel tempo. Ricordo, rivedendo la sua immagine, l’eccentricità e come diceva Oscar Wilde: “La moderazione è una cosa fatale. Nulla ha più successo dell'eccesso”.

Simona, Andrea ti sorride, grato del tuo ricordo.