Andrea G. Pinketts sapeva essere amico delle donne. Dietro la sua scrittura incisiva e sanguinolenta c’erano gli occhi verdi di uno scoiattolo impaurito. Era un insospettabile timidone, forse è per questo che delle donne era solo un buon amico; compresa sua madre, che era quella del cuore. Credo di essere stata una sua amica, anche se non ci siamo mai scritti TVB su whatsapp. I veri amici sono quelli che non creano legami ossessivi e che comprendono i motivi degli umori cangianti. Ci conoscemmo per caso, cinque anni fa, durante un vernissage di design in Corso Garibaldi. Io, arrivata a Milano da appena una settimana, mi guardavo attorno incuriosita, già travolta dalle possibilità; lui, nativo e radicato alla sua città, entrò in quel negozio luminoso con il suo berretto a scacchi, il giubbotto all’Ispettore Derrick e un sigaro spento nell'angolo della bocca. “C’è Pinketts, c’è Pinketts” iniziò a mormorare la gente, “e chi è Pinketts?” chiesi a una signora in pelliccia senza accorgermi d’averlo fatto ad alta voce, “lo scrittore, quello famoso” rispose lui, scherzoso, alle mie spalle. Ammisi dispiaciuta che non lo conoscevo mentre la signora gli disse che lo seguiva in TV quando presentava il programma Mistero. Gli vidi fare un ghigno infastidito, capì subito che voleva essere riconosciuto come scrittore e non come personaggio televisivo, ma la signora gli chiese l’autografo, e il selfie e gli fece una domanda inopportuna sbattendo le ciglia come un cerbiatto. Lui, intanto, si accorse delle mie mani macchiate di vernice acrilica “vedo che dipingi” disse incuriosito, “sì, sono un’imbianchina”. Fece una risata contagiosa e ci dileguammo dai festeggiamenti come se fossimo due vecchi amici. Iniziammo a camminare senza meta, mi chiese di mostrargli le foto dei miei quadri e così tirai fuori il mio iPhone. Guardò con attenzione ogni foto e lo vidi imbambolarsi davanti a un piatto di spaghetti che si trasformava in limoni e non si aspettava che il vino potesse diventare umano dopo essere stato versato da una brocca. “E’ un genere innovativo” commentò energico, “se fosse un libro, sarebbe un genere horror che sul finale si trasforma in fantasy per bambini… e comunque il termine che più si avvicina alla tua arte è Pop”. “No” intervenni secca, “è Pup, Pup come Pupazza”, e lo feci ridere un’altra volta. La passeggiata continuò in un turbinio di battute e così gli confidai anche delle mie poesie, “ma io chiamo le poefesserie, sai… niente di serio” lo avvisai. “Dai, dimmene una, ti dirò bocciata o promossa” disse lui tra il divertito e il serio. Così, attraversammo Corso Como e gli recitai la prima che mi venne in mente: “Se anche tu cambi spesso opinione e ti senti sempre un coglione nel senso che cogli l’anima di tutti e dipingi i frutti senza mangiarli mai, allora sei come me”. Vidi il volto di Andrea illuminarsi, “ma è una poefesseria bellissima, promossa” disse con entusiasmo, mi parve quasi di vedergli fare un saltello, “voglio sentirne un’altra”. Felice, mi tuffai a pesce nella seconda poefesseria: “Esattamente nella mia mente non so cosa c’è, considero umano il cavallo e medicina la lattuga che in fuga dalla melanzana s’innamora del tuo pollice soffice” e si ritrovò con il pollice tra le mie mani, avendoglielo afferrato con la forza. Andrea smise di camminare, mi guardò dritto negli occhi e disse “sto ascoltando delle cose geniali come la mia G”. “Che vuoi dire?” Quale G?” chiesi curiosa, “quella del mio nome d’arte, Andrea G. Pinketts, la G sta per Genio” rivelò con una punta di orgoglio. Quella parola, chissà perché, mi fece quasi paura. Ricordo che borbottai un po’, non lo sapevo di essere un genio… arrivammo in piazza Gae Aulenti che mi ordinò di convincermene, altrimenti un giorno mi sarei potuta perdere. Da quella lunga passeggiata ne sono seguite altre, almeno una ogni mese. Lui amava camminare, l'automobile vista dai suoi occhi doveva essere un salotto scomodo e antipatico. “Come si fa a guardare Milano da dietro un finestrino?” diceva con gli occhi avidi di dettagli mentre passava da un marciapiede all’altro. Una volta camminammo talmente tanto che le unghie dei miei poveri piedi cominciarono a sanguinare. Così entrammo in una farmacia per comprare dei cerotti e mi aiutò a tamponare le ferite. “Dai, su, non è niente” m’incoraggiò “continuiamo a camminare”. Avrei solo voluto prendere un taxi ma gli lanciai una parolaccia e lo accontentai. La sua compagnia era troppo piacevole per dirgli di no. Con lui mi divertivo, tornavo a casa arricchita e non svuotata come mi succedeva quando m’invitavano a quei vuoti aperitivi, ai quali, infatti, non partecipavo più. Io e Andrea scherzavamo su tutto in un continuo, pirotecnico, gioco di parole: vinceva chi faceva la battuta più simpatica, chi infilava più frasi nella lavatrice delle idee facendole diventare strofe esilaranti e melodiche. Finiva sempre che anche l’argomento più serio diventava curioso. Andrea non era soltanto uno scrittore, era lui stesso un libro: la sua mente funzionava nel surrealismo, nell’acrobatico mondo del possibilismo e credo proprio che fossimo legati dalla stessa gassosità. “Lei è figlia di un latifondista spagnolo scappato in Romania per problemi con la legge, tutto ciò che le ha lasciato, è un lenzuolo cinese molto pregiato” una volta mi presentò così a un barista che, imbarazzato, mi chiese che cosa avesse combinato mio padre di tanto grave. “Sfruttamento del lavoro minorile delle cicorie” risposi seria “sai, non era molto remunerativo fare l’addestratore di lumache”.
La Pupazza 15/12/2020
***
In compagnia di Pupazza che parla dell’acrobatico mondo del possibilismo di cui mio figlio Andrea è stato pericoloso (per se stesso) e audace protagonista, impavido, coraggioso all’eccesso e sempre vincitore con quella sua aria un po’ strafottente, ammiccante, malandrina, fino ad arrivare al candore di un angelo.
Allora, da quel possibilismo mi metto al vostro fianco e cammino, cammino, come se le strade di Milano fossero asfaltate di betulle anziché di un pavé anacronistico e scomodo.
Voi mi sentite al vostro fianco, sono l’ombra amorevole che è paga di andare per queste strade silenziose, avvolte spesso dalla nebbia del mistero. E’ godere insieme a voi di un rapporto antico e puro come è l’amicizia che è riconoscersi.
Due anime che si raccontano, qualche volta divertendosi per il gioco delle parole, delle battute, del piacere di stare insieme; qualche altra volta costrette a fermarsi in una farmacia per alleviare le ferite con pomate antalgiche che alleviano la fatica del cammino per poi riprendere a riaccendersi del reciproco stupore che trasforma le cose, gli oggetti, secondo i propri voli.
Che gioia avere questo potere di avere una seconda vista, un secondo tatto, una visione magica di quello che appare di un quotidiano noioso, scontato, come bere un prosecco o uno Spritz, in un’atmosfera di parole inutili, avvolte nella nebbia. Che noia trascorrere le ore con un sorriso obbligatorio sulle labbra.
Meglio camminare, scoprire e inventare quello che dà luce alla nostra anima.
In questa lunga passeggiata, tu, Pupazza, hai dato a mio figlio, ai suoi libri, ai suoi prodigi letterari, al candore della sua eclettica personalità, la fisicità della sua presenza. Grazie.
Pupazza, vorrei con te continuare questa passeggiata, avvolta dalle scroscianti risate di Andrea, dai suoi silenzi creativi, dalla magia che tesse i suoi fili all’infinito.
29/12/2020